(Rileggi 1a parte)
Il XIX secolo si caratterizza per i ritmi e la diffusione della crescita, ma anche il secolo successivo, il Novecento, ha dei tratti distintivi: in tutta Europa la generalizzata crescita economica (con l’esclusione del periodo delimitato dalle due guerre mondiali) va di pari passo con il cambiamento strutturale dell’intera economia.
Il XIX secolo si caratterizza per i ritmi e la diffusione della crescita, ma anche il secolo successivo, il Novecento, ha dei tratti distintivi: in tutta Europa la generalizzata crescita economica (con l’esclusione del periodo delimitato dalle due guerre mondiali) va di pari passo con il cambiamento strutturale dell’intera economia.
Man
mano che le varie economie crescono, incrementando il livello
generale del PIL (sebbene come si è visto i benefici non siano
sempre immediatamente condivisi da chi li genera).
E’
inoltre rilevabile un interessante sviluppo di questa evoluzione: nel
momento in cui la tecnologia ha liberato risorse (per meglio dire:
manodopera) nel settore dell’agricoltura, queste sono migrate
nell’industria, e quando anche qui la tecnologia, soprattutto in
veste di automazione, ha a sua volta liberato manodopera, questa
ancora una
volta si sta spostando, ora,
verso i servizi.
Ma
quando anche questo settore, cosiddetto terziario, sarà saturo,
quando anche qui la tecnologia, l’informatizzazione e la robotica
faranno gran parte del lavoro, cosa ne sarà del tempo liberato?
La
soluzione più immediata sembrerebbe quella di restituirlo al libero
utilizzo dell’individuo, proseguendo nel trend che, sia pure con
alcune discontinuità all’interno dei decenni, mostra un
inequivocabile diminuzione del tempo dedicato al lavoro.
In
questo scenario va sottolineato che, se da una parte gli imprenditori
hanno perseguito solamente il loro profitto, anche chi ha governato
ha in qualche modo contribuito a creare questa situazione. Si sono
adottate politiche del ‘lasciar fare’, sempre troppo inclini a
facili liberalizzazioni ed al mondo della finanza piuttosto che a
quello della manifattura.
Posizioni che, troppo spesso, non curano
gli interessi diffusi, ma sono attente ai cosiddetti ‘poteri
forti’.
Qualsiasi
futura azione di governo dovrà quindi evitare di cadere nella
trappola della pura e semplice riduzione del costo dei fattori
produttivi – e segnatamente del fattore lavoro.
La
riduzione dei salari
non può essere in grado di colmare il gap del costo del lavoro
rispetto a gran parte dei concorrenti che provengono da economie in
sviluppo, ma rischia di spostare ancora un po' più in là nel tempo
l'orizzonte di una presa di coscienza collettiva da parte di
imprenditori, politica e sindacato, di affrontare la necessità
di porre mano ai modelli di organizzazione del lavoro per attuare una
modernizzazione non solo degli strumenti e dei macchinari, ma
soprattutto del modo con il quale il fattore lavoro viene gestito nei
processi produttivi.
Purtroppo
però i vari soggetti che in passato hanno deciso le politiche del
lavoro (politica/sindacato tradizionale/aziende) non hanno
considerato almeno due problemi.
Il primo è di una evidenza
disarmante: con l’attuale assetto non c’è lavoro sufficiente a
riempire la giornata di tutti i lavoratori. Anche prestandosi a
lavori mal retribuiti ed al di sotto della propria professionalità,
la disoccupazione (soprattutto giovanile) resta molto alta (in
Italia, oltre il 34%).
Il secondo è dato dal fatto che la qualità della vita del
lavoratore (quello peraltro meno sfortunato che trova un impiego)
peggiora drasticamente. Non avendo un lavoro stabile deve
continuamente ritarare la propria vita e i propri ritmi, in funzione
della richiesta del momento.
Ma questo, se diffuso su larga scala,
rende meno solida tutta la società, in condizioni di incertezza è
più difficile programmare il futuro, che si tratti di acquistare una
casa o costruire una famiglia, la stabilità (almeno relativa) è un
requisito essenziale per condurre una vita dignitosa. Infatti questi
tipi di lavoro “sono percepiti, alla lunga, come una ferita
dell’esistenza, una fonte immeritata d’ansia, una diminuzione di
diritti di cittadinanza che si solevano dare per scontati”.
Definita
l’insostenibilità della flessibilità come sistema principale, è
anche necessario indicare la direzione per individuarne la soluzione.
Questa è individuabile proprio nella regola che principalmente viene
adottata dal mondo imprenditoriale per la definizione dei prezzi.
Questo è tanto più alto quanto più l’acquirente ha la necessità
del bene in vendita.
Esattamente nello stesso modo, giacché la
flessibilità ha un valore per il datore di lavoro, questa, o meglio,
il reddito erogato al lavoratore ‘flessibile’, dovrebbe essere
molto più alto di quello previsto per il lavoratore non flessibile.
Nessun commento:
Posta un commento